Ha una parlantina contagiosa Désirée Giorgetti: quando parte, difficilmente si ferma, senza annoiarti mai. Classe 1982, prima di diventare attrice sognava una carriera da criminologa, ma poi la visione di Psicosi delle 4 e 48 di Sarah Kane a teatro le ha fatto cambiare rotta. Dopo un percorso di formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, è il cinema indipendente ad aprirle le sue porte, e da domani, giovedì 8 maggio, la vedremo nelle sale italiane con Ritual – Una storia psicomagica (leggi la trama e guarda il trailer), film d’esordio di Giulia Brazzale e Luca Immesi girato in Red Epic 5k (la stessa tecnologia utilizzata per blockbuster come Prometheus, Lo Hobbit, o Il grande e potente Oz).
La pellicola si ispira a La danza della realtà, trattato sulla psicomagia di Alejandro Jodorowsky. Per chi non lo spaesse, la psicomagia è una forma d’arte curativa alternativa ai classici metodi clinici della psicologia: non prevede l’uso di farmaci ma fa leva su profondi meccanismi di suggestione che agiscono sul subconscio del paziente. È a questo tipo di trattamento che si sottopone Lia, il personaggio che Désirée interpreta nel film, che dopo un tentativo di suicidio in seguito a un aborto, voluto dal suo fidanzato Viktor, torna nel luogo della sua infanzia, a Mason Vicentino, uno sperduto paesino del Veneto dove si stabilisce a casa di sua zia Agata, la guaritrice del villaggio.
Noi abbiamo incontrato Desirée, che ci ha parlato del film, di psicomagia, e del suo rapporto con l’horror:
Ritual fa riferimento agli studi jodorowskiani sulla psicomagia, una disciplina ancora oggi molto discussa e di cui non tutti conoscono le caratteristiche. Tu, che hai anche studiato psicologia, che idea ti sei fatta su questo approccio?
«Io conoscevo Jodorowsky (che compare in un cameo nel film, ndr) più per i suoi film che per i suoi studi, quindi Ritual è stata un’esperienza molto utile perché mi ha fatto scoprire un nuovo metodo d’analisi. E devo dire che alla fine delle riprese mi sono sentita molto affine con la psicomagia, tanto che ormai sposo appieno il suo approccio. La chiave di tutto è parlare con un linguaggio simbolico direttamente all’inconscio, un po’ come fanno i sogni. Gli atti psicomagici sono estremamente concreti e per una come me, predisposta alla suggestione, questo ha un forte impatto».
Nel film interpreti Lia, un personaggio problematico che deve superare un forte trauma. Come ti sei preparata per il ruolo?
«L’ho trovato sin da subito un ruolo molto interessante. Ho sempre avuto il desiderio di indagare il lato oscuro delle persone, per scoprire cosa bolle sotto la superficie di ognuno di noi. Così ho cominciato a studiare psicologia, ma poi ho capito quanto volessi che gli aspetti più animaleschi dell’umano si riflettessero su di me, per questo mi sono convinta che fare l’attrice fosse la mia strada. In Ritual Lia interiorizza molto tutto ciò che le accade, e per me era importante sollecitare tutte le sue sfumature. Compreso il rapporto con il suo ragazzo Viktor, che la mette incinta ma le impedisce di avere il bambino. Dovevo fare tutto questo senza doverlo urlare. Ed è stato molto stimolante».
Come descriveresti il suo rapporto con Viktor?
«Mi sono trovata molto bene con Ivan (Franek), lavorare con lui è stata una fortuna perché si è subito creata una grande empatia tra di noi, sia nella realtà sia davanti alla macchina da presa. Il rapporto tra Lia e Viktor è estremamente reale: la co-dipendenza che si crea in amore, dove vittima e carnefice non possono fare a meno l’uno dell’altra per esistere, è qualcosa di molto diffuso. Tra i due personaggi il sentimento è forte e sincero, solo che lo esprimono in un modo che sfocia nell’autolesionismo. La loro relazione non può essere normale, perché basata troppo sulla dipendenza reciproca».
Possiamo dire che, nonostante le sue atmosfere dark, Ritual sia più un thriller psicologico che un horror…
«Esatto. Giulia e Luca, i registi, sono stati molto attenti a costruire una struttura simbolica solida, inquadratura dopo inquadratura. La tensione del film è tutta psicologica, e uno degli elementi base di Ritual è la fusione tra sogno e realtà: quando torna nel paesino della sua infanzia, Lia comincia a essere colpita da una serie di allucinazioni, che però fanno tutte riferimento alla tradizione del luogo. Nulla è inventato».
Prima di Ritual, hai girato un altro horror, Morituris, completamente diverso per messa in scena della violenza, tanto che è stato censurato in Italia.
«Morituris è un horror più estremo, dove ero chiamata a esprimere ciò che provavo in modo fisico. Lì tutto era molto più esposto che in Ritual, perché dovevo gridare, correre nei boschi per rimanere aggrappata alla vita. Credo sia stato censurato perché abbiamo toccato argomenti ancora troppo scomodi in Italia, come la religione per esempio».
Ora ti stai muovendo prevalentemente nel contesto del cinema indipendente. Pensi che, per chi sogna di lavorare nel cinema, sia il percorso più adatto in questo periodo di crisi?
«Credo che sia il contesto che forse offre più opportunità creative al momento. Il coraggio nel fare cinema è fondamentale, e in questo senso ammiro molto il cinema francese, che ha regalato titoli come Amour o La vita di Adele. Per una donna, poi, non è sempre facile, perché deve fare i conti con una serie di stereotipi e di modelli che spesso la penalizzano, legati soprattutto alla televisione. A me questo contesto piace, perché mi dà la possibilità di fare cose diverse, mettendomi sempre alla prova. In più, mi permette di muovermi nell’horror, un genere che adoro. Ora ho appena finito di girare uno zombie-movie, Anger of the Dead, un film di Francesco Picone girato in Toscana e prodotto da Uwe Boll ed Extreme Video, dove interpreto una prigioniera muta, l’unica che gli zombie non attaccano. Tra poco, invece, prenderò parte a un altro horror in Germania, molto più psicologico, in cui torna in gioco il tema della co-dipendenza».
L’horror negli ultimi anni si è un po’ fossilizzato a causa dei tanti remake e reboot che escono da Hollywood. Secondo te, cosa serve al genere per rinnovarsi?
«Credo che l’ideale sia allontanarsi un pochino dall’intrattenimento che ha sempre offerto il genere, tendente più allo splatter o al gore: bisogna portare l’horror a ciò che è più vicino all’umano, per aumentare la credibilità di quanto si vede in sala. Le teste che volano sono divertenti, ma se la storia non ha profondità, non mi interessa».